Nazim Hikmet, biografia e poesie

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Nazim Hikmet, il più importante poeta turco del Novecento, nasce nel 1901 (anche se  fu registrato un anno dopo) nella Salonicco ottomana, che oggi, come Tessalonica, appartiene alla Grecia.​ E’ ricordato principalmente per le sue Poesie d’amore. I versi  scritti dal 1933 sino alla sua morte sono stati tradotti in più di cinquanta lingue.​ In italiano li ha trasposti Joyce Lussu, partigiana, politica, scrittrice, traduttrice e poetessa, che ha avuto anche una corrispondenza epistolare col poeta. Da quella lunga missiva qui abbiamo stralciato brani, in modo che sia possibile leggere direttamente le parole di Hikmet, come in una recente rappresentazione dei membri del Salotto Culturale Ore d’Otium.

Alla vita​

(1948)​

La vita non è uno scherzo.​

Prendila sul serio​

come fa lo scoiattolo, ad esempio,​

senza aspettarti nulla​

dal di fuori o nell’al di là.​

Non avrai altro da fare che vivere.​

La vita non é uno scherzo.​

Prendila sul serio​

ma sul serio a tal punto​

che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,​

o dentro un laboratorio​

col camice bianco e grandi occhiali,​

tu muoia affinché vivano gli uomini​

gli uomini di cui non conoscerai la faccia,​

e morrai sapendo​

che nulla é più bello, più vero della vita.​

Prendila sul serio​

ma sul serio a tal punto​

che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi​

non perché restino ai tuoi figli​

ma perché non crederai alla morte​

pur temendola,​

e la vita peserà di più sulla bilancia.​

Mio nonno, Nazim Pascià, era poeta, ma  ancora oggi non capisco le sue poesie; scriveva in un turco che si chiamava ottomano, formato per il 75 per cento da parole arabe e persiane, con regole grammaticali  arabe e persiane. Le sue poesie erano dogmatiche, didattiche, religiose. Non le capivo, ma ero il nipote di un nonno poeta.​

Mia madre (la pittrice Aisha Dshalila) era innamorata di Baudelaire e di Lamartine, e li leggeva in francese, perché in quei tempi le traduzioni in turco erano rare e tutte in ottomano, che lei sapeva meno ancora di me.​

La poesia, a casa nostra, era sugli altari.​

Nazim Hikmet ricorda come scrisse i suoi primi versi:​

Scoppiò un incendio di fronte alla nostra casa. Ebbi paura. Mio nonno  si mise in piedi davanti alla finestra, brandendo il Corano aperto. L’incendio si spense, ma non per la forza del Corano, e nemmeno per quella dei pompieri; si spense da solo, dopo aver incenerito la casa che bruciava di fronte a noi. Io, due ore dopo, scrissi la mia prima poesia: “L’incendio” secondo il ritmo dell’aruz, la metrica chiusa arabo-persiana che  seguiva mio nonno. ​

 “Brucia brucia con terribile fracasso​

 quel nemico dell’umanità​

che stringe fra le sue braccia​

le case le madri e gli orfani…”​

Scrisse la seconda poesia a 14 anni e ​a sedici anni la terza. In quell’epoca era nata una lingua poetica tutta nuova inventata da Yaya Kemal. Penso che lui fosse innamorato di mia madre: a casa leggevamo le sue poesie e all’accademia navale era il mio professore di storia.​

La poesia aveva per argomento il gatto di mia sorella. Perché? Forse, visto che volevo approfondire  le questioni di forma, avevo scelto un tema neutro, astratto. Feci vedere la poesia a Yaya Kemal:​

“Aveva gli occhi verdi ​

come le onde del mare​

con i suoi peli bianchi ​

sembrava una palla di neve…”​

Yaya Kemal volle vedere il gatto. Era un gattino rognoso, di colore incerto. Il grande poeta mi disse: “Se puoi fare una poesia su quella sudicia bestiola, puoi diventare un grande poeta”.​

C’era una differenza così grande tra la realtà e quello che avevo scritto, ma nel linguaggio e nella metrica almeno, la poesia esprimeva le nuove tendenze.​

Studiò nel liceo francese di Galatasaray (Istanbul); lasciò l’Accademia della Marina militare per ragioni di salute. ​

Poi mi sono innamorato follemente di varie ragazze e ho scritto per loro dei versi.​

       E’ l’alba. S’illumina il mondo​

(1933)​

E’ l’alba. S’illumina il mondo​

come l’acqua che lascia cadere sul fondo​

le sue impurità. E sei tu, all’improvviso​

tu, mio amore, nel chiarore infinito​

di fronte a me.​

Giorno d’inverno, senza macchia, trasparente​

come vetro. Addentare la polpa candida e sana​

d’un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia​

all’aspirare l’aria in un bosco di pini.​

Chi sa, forse non ci ameremmo tanto​

se le nostre anime non si vedessero da lontano.​

Non saremmo così vicini, chi sa,​

se la sorte non ci avesse divisi.​

E’ così, mio usignolo, tra te e me​

C’è solo una differenza di grado:​

tu hai le ali e non puoi volare​

io ho le mani e non posso pensare.​

Finito! – dirà un giorno madre Natura -​

finito di ridere e piangere.​

E sarà ancora la vita immensa​

Che non vede non parla non pensa​.

Ho sognato della mia bella​

(1947)​

Ho sognato della mia bella​

m’è apparsa sopra i rami,​

passava sopra la luna,​

tra una nuvola e l’altra​

andava e io la seguivo;​

mi fermavo e lei si fermava,​

la guardavo e lei mi guardava​

e tutto è finito qui.​

Amo in te​

(1943)​

Amo in te​

l’avventura della nave che va verso il polo.​

Amo in te​

l’audacia dei giocatori, delle grandi scoperte​

Amo in te le cose lontane​

Amo in te l’impossibile.​

Entro nei tuoi occhi come in un bosco​

pieno di sole​

e sudato affamato infuriato​

ho la passione del cacciatore​

per mordere nella tua carne.​

Amo in te l’impossibile​

ma non la disperazione​.

Poi le questioni che riguardano la coscienza, l’onore, l’eternità mi hanno interessato e ho scritto su queste cose. ​

Quando gli Alleati occuparono Istanbul, io scrissi delle poesie contro l’Intesa, inneggiando al movimento di liberazione in Anatolia.

L’impero ottomano era in guerra contro i Greci. Alla fine, gli alleati ed i greci occuparono Costantinopoli e l’Anatolia occidentale, in attesa di smembrare l’Impero ottomano. ​

Un grande soldato, Mustafà Kemal, si oppose facendosi promotore del nazionalismo turco. Dal 1919 al 1922, sconfisse i greci e l’esercito del Califfo, depose il sultano  Maometto VI, ristabilì l’unità e l’indipendenza della Turchia, fondò la Repubblica turca e ne divenne il primo presidente.​

Benchè Mustafà fosse lontanissimo dall’ideologia marxista – sosteneva l’inesistenza della questione di classe – i suoi rapporti con Lenin furono improntati a grande rispetto, soprattutto per il sostegno anche economico che l’Unione Sovietica gli aveva fornito durante la guerra.​

Mustafa Kemal meritò il nome di  Atatürk (“Padre dei Turchi”) cognome assegnato esclusivamente a lui con apposito decreto parlamentare.​

“Pace in casa, pace nel mondo” recita  il Preambolo della Costituzione della Repubblica Turca.​

Nonostante la Turchia, soprattutto a livello popolare,  fosse rimasta intrinsecamente conservatrice, le riforme di Mustafa Kemal la avvicinarono sensibilmente all’Europa. ​

Il kemalismo avversava il clero musulmano. Pur mantenendo l’Islam come religione di Stato  per non turbare eccessivamente i turchi più religiosi, pose le organizzazioni religiose sotto il controllo statale.

Così Ataturk espresse la sua aperta disapprovazione verso l’Islam: ​

«Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno Stato moderno e progressista.​ La rivelazione di Dio? Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» ​

Marx con parole diverse sintetizzava: La religione è l’oppio dei popoli.

Ataturk laicizza lo Stato,  riconosce la parità dei sessi, istituisce il suffragio universale, la domenica come giorno festivo, proibisce l’uso del velo islamico alle donne nei locali pubblici (legge abolita solo negli anni 2000), adotta l’alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale e proibisce l’uso del fez e del turbante, troppo legati al passato regime, così come la barba per i funzionari pubblici e i baffi alla turca per i militari. Egli stesso prende a vestire in abiti occidentali. Ataturk, in ambito giuridico, abroga ogni norma e pena che poteva ricollegarsi alla legge islamica, promulga un nuovo codice civile sul modello di quello svizzero e un codice penale basato sul codice italiano dell’epoca. Mantiene comunque la pena di morte. ​

Il suo sistema autoritario incentrato sul partito unico garantiva la stabilità e la sicurezza dello Stato.

Temendo rigurgiti islamisti, l’esercito viene autorizzato a colpi di stato per difendere la laicità.​

Si registrano però fenomeni di repressione delle opposizioni e pesanti violenze contro i curdi.​

Ataturk muore di cirrosi epatica nel 1938;  le sue spoglie riposano in un mausoleo appositamente costruito per lui ad Ankara, capitale dello Stato repubblicano che egli contribuisce in modo decisivo a creare. Gli sono dedicati l’areoporto e lo stadio.​

L’insultarlo è un reato, e tuttavia il primo ministro islamista Recep Tayyip Erdoğan, chiedendo in parlamento una legge più restrittiva sugli alcoolici, dice che quella in vigore era stata scritta da un ubriaco, chiaro riferimento ad Atatürk, consumatore di bevande alcoliche al punto da morire di cirrosi epatica.​

Durante la Guerra di Indipendenza, Nazim Hikmet si schiera dapprima con Mustafa Kemal.

Poi gli Alleati occuparono Istanbul, e io scrissi delle poesie contro l’Intesa, inneggiando al movimento di liberazione in Anatolia.​

A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi. Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo. Ma non ne fui capace. ​

All’inizio degli anni Venti, deluso dagli ideali nazionalisti, si iscrisse al partito comunista turco, esprimendo disapprovazione per l’Islam.​

Durante l’occupazione  denuncia i massacri armeni del 1915-1922.​ Malvisto, deve trasferirsi in esilio volontario in Russia, attratto anche dal fascino della recente rivoluzione d’Ottobre. Il fallimento dell’esperimento comunista era ancora di là da venire.​

“E al di là della notte​

mi aspetterà​

– spero -​

il sapore di un nuovo azzurro”.​

Per trovare il modo giusto era necessario, a quanto pare, che passassi nell’Unione Sovietica.​ Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un’ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-1922, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un’immensa gioia di vivere, di creare.​ Ho scoperto tutta un’altra umanità.​ E cominciai a scrivere in un altro modo.​ E da allora, non posso non scrivere delle poesie.

Chi era ​ Nazim Hikmet?​

Studia sociologia presso l’Università di Mosca dove conosce artisti e letterati di tutta Europa. Rientrato clandestinamente in Turchia nel 1924, inizia a collaborare con un giornale di sinistra. Condannato “in absencia” a quindici anni di lavori forzati per la sua opposizione al regime e per propaganda comunista, riesce nuovamente a fuggire in Russia nel 1926, dove riprende a lavorare ed a pubblicare poesie ed opere teatrali (conobsce, tra gli altri, Majakowsky, la cui poesia futurista lo avrebbe lungamente influenzato).​

Due anni dopo, a seguito dell’amnistia generale, torna in Turchia, ma poiché il partito comunista è stato dichiarato fuorilegge, è costantemente sorvegliato dalla polizia e dai servizi segreti che gli imputano reati spesso totalmente pretestuosi (una volta, ad esempio, è arrestato per affissione illegale di manifesti politici). Tra il 1928 ed 1936 trascorre in carcere  un periodo non inferiore a cinque anni. E’ liberato dall’amnistia generale del 1933 per il decennale della Repubblica. Riesce comunque a pubblicare nove libri. Si tratta di 5 raccolte e 4 poemi lunghi che rivoluzionano lo stile e le tematiche della poesia turca. Scrive anche romanzi, testi teatrali e lavora come giornalista e correttore di bozze, traduttore e sceneggiatore. Ma anche come rilegatore, nel tentativo di mantenere la seconda moglie, due figli di lei e la madre, ora vedova. Il primo brevissimo matrimonio, risalente al 1922, è stato annullato al tempo della prima fuga a Mosca.

Ti amo come

Ti amo come se sorvolassi il mare ​

per la prima volta in aereo​

Ti amo come qualche cosa che si muove in me​

quando il crepuscolo scende su Istanbul poco a poco​

Ti amo come se dicessi: Dio sia lodato! son vivo.​

I giorni son sempre più brevi​

le piogge cominceranno.​

La mia porta, spalancata, ti ha atteso.​

Perché hai tardato tanto?​

Nel 1938 è nuovamente arrestato, per attività anti-naziste e anti-franchiste e con l’accusa di aver tentato di incitare, con le sue opere, la marina turca alla rivolta. Questa volta la condanna è molto dura: 28 anni di carcere (a dimostrare che, a torto o a ragione, il potere teme più la penna che la spada…). In prigione, dove sarebbe rimasto per quattordici anni, scrive le sue opere più belle, tra cui il capolavoro assoluto “Paesaggi Umani” (1941-1945), ma non avrebbe mai più visto un suo libro pubblicato sul suolo turco, e solo clandestinamente è potuto circolare qualche suo lavoro, stampato all’estero. ​

Ancora in carcere, divorzia dalla seconda moglie per sposare la traduttrice Münevver Andaç, da cui ha il figlio Mehemet.​

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi​

che tu venga all’ospedale o in prigione​

nei tuoi occhi porti sempre il sole. ​

questa fine di maggio, dalle parti d’Antalya, ​

sono cosi, le spighe, di primo mattino;​

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi​

quante volte hanno pianto davanti a me ​

son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi, ​

nudi e immensi come gli occhi di un bimbo​

ma non un giorno han perso il loro sole;​

i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi ​

che s’illanguidiscono un poco, i tuoi occhi ​

gioiosi, immensamente intelligenti, perfetti:​

allora saprò far echeggiare il mondo ​

del mio amore.​

Così sono d’autunno i castagneti di Bursa​

le foglie dopo la pioggia​

e in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.​

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi​

verrà giorno, mia rosa, verrà giorno​

che gli uomini si guarderanno l’un l’altro​

fraternamente​

con i tuoi occhi, amor mio,​

si guarderanno con i tuoi occhi.​

Rimesso in libertà nel 1949 per intercessione di una commissione internazionale che comprendeva, tra gli altri, Jean-Paul Sartre e Pablo Picasso e dopo uno sciopero della fame di diciotto giorni reso ancora più drammatico dal recente attacco cardiaco, Hikmet riceve nel 1950 il premio Nobel per la Pace.​

Ma già l’anno successivo è costretto a fuggire a Mosca.

Scrive a Simone De Beauvoir di due tentativi governativi di assassinarlo investendolo mentre è in auto e di essere stato forzatamente arruolato nell’esercito e destinato al fronte con la Russia. Racconta Hikmet che il medico militare incaricato di visitarlo gli dice: “Lei non è in condizione di sopravvivere più di un’ora sotto il sole del deserto, eppure io ho pronto per lei un certificato di buona salute”. Il poeta, ormai cinquantenne ancora pativa per l’attacco cardiaco subito in carcere che lo avrebbe stroncato dopo dieci anni.​

Per fuggire da Instambul Hikmet tenta di attraversare il Bosforo su una piccola barca a motore in una notte di tormenta. Nelle notti serene c’erano troppe guardie. Dopo alcune ore di navigazione incrocia una nave rumena che però non si ferma pur se i marinai avendolo riconosciuto, avevano risposto al saluto. Soltanto quando il motore della piccola imbarcazione del poeta smette di funzionare nel mezzo della tempesta, il cargo si ferma e lo accoglie a bordo. Nella cabina del capitano campeggiava un ritratto del poeta con la scritta “Salvate Nazim Hikmet”. Mai auspicio si concretizza in modo tanto letterale! ​

A Mosca gli viene assegnato un alloggio nella colonia di scrittori di Peredelkino, ma il governo turco ha rifiutato sempre di concedere alla moglie ed al figlio il permesso di raggiungerlo. Nonostante un secondo attacco cardiaco nel 1952, Hikmet viaggia molto: Europa, Sud America, Africa. Solo gli Stati Uniti gli rifiutano, sempre, il visto. Ma era l’epoca della Guerra Fredda… ​

Quante donne belle ci sono al mondo

1960

Quante donne belle ci sono al mondo​

quante belle ragazze​

s’affacciano sulle terrazze della città.​

Contemplale vecchio, contemplale ​

e mentre da un canto i tuoi versi​

si fanno più tersi e lucenti​

dall’altro devi contrattare,​

cercando di tirarla in lungo​

con la morte che ti sta accanto.​

Dopo che gli viene tolta la cittadinanza Turca (1959), accetta l’offerta di un passaporto polacco, dichiarando di aver ereditato i capelli rossi e gli occhi chiari da un progenitore, un rivoluzionario del XVII secolo, originario della Polonia.​

Nel 1960, di nuovo a Mosca, si sposa – per la quarta volta – con la giovane Vera Tuljakova. Sempre a Mosca sarebbe morto, per una nuova crisi cardiaca, nel 1963, a 62 anni d’età.​

Angina Pectoris​

1948​

Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,​

l’altra metà sta in Cina​

nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.​

E poi ogni mattina, dottore,​

ogni mattina all’alba​

il mio cuore lo fucilano in Grecia.​

E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno​

quando gli ultimi passi si allontanano​

dall’infermeria​

il mio cuore se ne va, dottore,​

se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.​

E poi sono dieci anni, dottore,​

che non ho niente in mano da offrire al mio popolo​

niente altro che una mela​

una mela rossa, il mio cuore.​

È per tutto questo, dottore,​

e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,​

che ho quest’angina pectoris…​

Guardo la notte attraverso le sbarre​

e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto​

il mio cuore batte con la stella più lontana.​

 

Forse la mia ultima lettera a Mehmet​

1955​

Da una parte​

 gli aguzzini tra noi​

ci separano come un muro​

d’altra parte​

questo cuore sciagurato​

mi ha fatto un brutto scherzo​

mio piccolo, mio Mehmet​

forse il destino​

m’impedirà di rivederti.​

Sarai un ragazzo, lo so,​

simile alla spiga di grano​

ero cosi quand’ero giovane​

biondo, snello, alto di statura;​

i tuoi occhi saranno vasti come quelli di tua madre​

con dentro talvolta uno strascico amaro​

di tristezza,​

la tua fronte sarà chiara infinitamente​

avrai anche una bella voce​

la mia era atroce​

le canzoni che canterai​

spezzeranno i cuori​

sarai un conversatore brillante​

in questo ero maestro anch’io​

quando la gente non m’irritava i nervi​

dalle tue labbra colerà il miele​ […]

Non vivere su questa terra​

come un inquilino​

oppure in villeggiatura​

nella natura​

vivi in questo mondo​

come se fosse la casa di tuo padre​

credi al grano al mare alla terra​

ma soprattutto all’uomo.​

Ama la nuvola la macchina il libro​

ma innanzi tutto ama l’uomo.​

Senti la tristezza​

del ramo che si secca​

del pianeta che si spegne​

dell’animale infermo​

ma innanzitutto la tristezza dell’uomo.​

https://www.periodicodaily.com/battipaglia-e-cultura-presentazione-agenda-d-arte-noitre-2023/

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