“Buio come il cuore” di Marco De Luca: un noir senz’anima

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Stanley Kubrick sosteneva che fosse inutile chiedere la spiegazione di un film dal momento che, muovendosi su un piano “non-verbale”, questo risultasse naturalmente ambiguo. L’ambiguità è un lusso però che film ambiziosi ma essenzialmente vuoti come Buio come il cuore, l’opera seconda di Marco De Luca, non si riescono a permettere.

LA TRAMA

La trama ruota attorno a quattro figure principali, impegnate nella realizzazione di un film. La protagonista è la passionale e tormetata attrice Anna, che durante il periodo di riprese inizia a credere di star diventando pazza, in preda a visioni e tormenti. Alla sua figura si aggiungono quella del marito Giulio, uno psicopatico possessivo (che l’interpretazione di Antonio Grosso dipinge più come un bambino che fa i capricci che come un vero malato mentale); l’ex fidanzata di Giulio, apparentemente amica della protagonista, e Fabio, fotografo e amante di Anna. Il fragile equiibrio che lega queste figure si spezzerà lentamente a causa di tradimenti, bugie e complotti, sfociando nella violenza.

IL TEMA DELLA PAZZIA

Sono innumerevoli i film in cui il tema della pazzia si incontra con quello dell’altro: dal precursore “Il gabinetto del dottor Caligari” di Robert Wiene al grande “Shutter Island” di Martin Scorsese, da “Perfect Blue” di Satoshi Kon all’affine “Il cigno nero” di Darren Aronofsky. Il tema, se ben sviluppato, è affascinante perché capace di instillare nelle menti degli spettatori il dubbio della verità: l’arma attraverso cui il cinema modella la realtà. Inoltre, la peculiarità dei film Noir – ai quali il regista Marco De Luca afferma di ispirarsi – non risiede esclusivamente nella cifra stilistica e nell’approccio al colore (generalmente il bianco ed il nero), ma anche e soprattutto nell’uso sapiente di un’atmosfera volutamente cupa per descrivere delle realtà contrastanti: la logica dell’investigatore si scontra con l’irrazionalità del contesto, la passione amorosa con i sensi di colpa e il tradimento.
In Buio come il cuore però, a parte l’ambientazione misteriosa e le luci puntualmente volte al personaggio che prende la scena in un dato momento, manca tutto il resto: i personaggi sono statici e piatti nella propria identità e non c’è un vero e proprio contrasto tra psicopatia e sanità mentale, data l’innaturalità di partenza del tutto. Per esempio, sebbene possa apparire inizialmente come l’elemento fuori luogo, fin troppo presto ci si rende conto che anche Anna, nel suo apparente estro, nasconde lo stesso male che accomuna tuttti i personaggi. Inoltre lo spettatore, se abile nel leggere una storia già prevista dall’inizio, comprende il finale dopo la prima mezz’ora di film, rendendo inutile e prolisso lo sconcusionato intreccio, caratterizzato da battute vuote e verbose che non arricchiscono la macrostoria in alcun modo.

“Buio come il cuore”, presentato al pubblico in sala come un thriller noir ispirato al cinema americano degli anni ’40-’50, si riduce quindi ad un’interminabile successione stereotipata di riprese a luce soffusa dove le dinamiche snaturate sono fredde e prevedibili e le battute sembrano rubate e riformulate, come una soap opera che vuole essere un thriller. A questo si aggiunge la colonna sonora eccessivamente marcata, spesso ingombrante e non necessaria, che sembra ingannare continuamente lo spettatore suggerendogli che ogni scena possa essere quella finale. Anche questa speranza sfuma però minuto dopo minuto, risolvendosi in un debole applauso di circostanza a fine proiezione – probabilmente dato dalla presenza in sala del cast – e un silenzioso fuggi fuggi generale all’accensione delle luci.

Qualcuno diceva che i geni rubano, per attingere da altri artisti ma intraprendere poi un personale percorso di rielaborazione, e “Buio come il cuore” è la dimostrazione che copiare senza avere nulla da dire, fare cinema senza avere nulla da dire, equivale a camminare su una strada già percorsa, tenendo lo sguardo fisso in basso.  

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